venerdì 4 dicembre 2009

Aminatou Haidar: «Continueremo a mostrarci»
Patrizio Esposito

Chi è l'attivista sahrawi il cui sciopero della fame sta mettendo in imbarazzo il governo spagnolo e ha fatto puntare i riflettori sul conflitto dimenticato del Sahara occidentale. Brani di due conversazioni sulla situazione dei sahrawi e il ruolo dell'occidente.

Aminatou Haidar, militante sahrawi nota per le battaglie della sua comunità contro la violazione dei diritti dell’uomo nel Sahara Occidentale, è stata più volte in Italia su invito di varie amministrazioni pubbliche. Il testo delle conversazioni, ricavato dalla trascrizione dell’audio di riprese video effettuate a Roma e Napoli nel 2006, in collaborazione con Jacopo Quadri e Fatima Mahfoud, e rivisto dalla stessa Haidar, è ripreso dal libro «Vedere l’occupazione, 64 fotografie dal Sahara occidentale», edizioni l’alfabeto urbano – associazione Haima, Napoli febbraio 2007.
Nata nel 1967 a El Aayún, città oggi occupata dal Marocco, Aminatou è stata arrestata una prima volta nel novembre 1987, restando in carcere fino al giugno 1991 e poi dal giugno 2005 al gennaio 2006. Liberata grazie alla tenace pressione di associazioni e personalità di vari paesi, tra cui Amnesty International, Aminatou è stata invitata a testimoniare la sua attività politica prima in Europa, poi negli Usa e in Africa. La città di Napoli le ha conferito la cittadinanza onoraria nell’ottobre 2006.
Il 13 novembre scorso è stata fermata all’aeroporto di Al Aayún [capitale del Sahara occidentale], al rientro dalla Spagna, dove è in cura per le conseguenze delle torture ricevute nelle prigioni marocchine, e imbarcata, contro la sua volontà e la complicità delle autorità spagnole, su un volo per le isole Canarie. Trattenuta all’aeroporto di Lanzarote, senza documenti e assistenza, ha iniziato uno sciopero indeterminato della fame e denunciato il coinvolgimento del governo spagnolo nella sua vicenda. La monarchia marocchina è impegnata da tempo a reprimere sanguinosamente la pacifica sollevazione popolare dei sahrawi nelle città occupate, senza risultati. Da alcuni mesi ha inasprito l’attività repressiva delle unità speciali dell’esercito e della polizia per decapitare la leadership della resistenza. Sette dirigenti delle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo sono stati sequestrati l’8 ottobre e rischiano la pena di morte, tra questi Brahim Dahane e Ali Tamek Salem. Altri attivisti, tra cui Sidi Mohamed Daddach, che ha già scontato 25 anni in una prigione marocchina, e Laarbi Mesoud, sono stati privati dei documenti di identità e minacciati di nuove persecuzioni. Contro i sahrawi sono state ripristinate le corti militari e in una violenta dichiarazione, trasmessa in diretta da tv e radio marocchine, Mohammed VI ha intimato alle forze di sicurezza di “superare ogni equivoco e farla finita con i traditori«. Anche in Marocco il giro di vite contro la libertà di espressione colpisce la stampa indipendente attraverso la chiusura delle redazioni, il sequestro dei quotidiani e dei settimanali nazionali e internazionali, oltre a pesanti multe. Nell’ultima settimana anche Il Pais e Le Monde sono stati sequestrati. I siti web pro-sahrawi sono oscurati da anni mentre alle delegazioni straniere di parlamentari e osservatori internazionali è di fatto proibito avere contatti con i rappresentanti delle organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo.
Aminatou ha ricevuto tre prestigiosi riconoscimenti internazionali: il «Premio Cear» [Commissione spagnola di aiuto ai rifugiati], l’8 maggio 2006 a Madrid, il «Premio Fondazione Robert Kennedy per i diritti dell’uomo», il 16 settembre 2008 a Washington, il «Premio coraggio civile» della Fondazione John Train, a New York il 20 ottobre 2009. È stata anche candidata dal Parlamento Europeo al premio Sacharov del 2006. Ad ottobre 2007, durante il Sandblast Festival a Londra, ha consegnato al regista Ken Loach una copia del libro «Necessità dei volti».
L’inasprirsi della repressione nelle zone occupate dal Marocco è possibile grazie all’appoggio politico che la Francia, la Spagna e gli Stati Uniti garantiscono alla monarchia alauita. Lo stesso piano di decolonizzazione dell’Onu è bloccato dal 1991 per i veti di Europa e Usa, interessati alle straordinarie risorse minerarie del Sahara occidentale. Il Marocco di Mohammed VI, che utilizza a pieno ritmo la feroce macchina poliziesca ereditata da Hassan II, è oggi «partner commerciale privilegiato» per l’Europa. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite la Francia ha recentemente impedito che i contratti commerciali con il Marocco fossero vincolati al rispetto dei diritti dell’uomo e a Rabat è stato riconosciuto lo «Statuto avanzato» anche se continuano le pratiche della tortura, della sparizione forzata e dei giudizi sommari. Decine sono i centri di detenzione segreta dove restano segregati marocchini e sahrawi per reati di opinione. L’ultimo piano neocoloniale dell’Europa, il «Desertec», finanziato dai colossi della finanza tedesca e osannato dallo scrittore Tahar Ben Jelloun, pretende di utilizzare sole e vento del Sahara occidentale senza considerare l’occupazione marocchina del territorio. Anche la pesca e la ricerca petrolifera sulla lunga costa oceanica del Sahara, ritenute illegali dal diritto internazionale, sono praticate senza limitazioni e consentono al Marocco di coprire le spese militari di presidio del muro costruito nel deserto e di ammodernamento delle armi.
Da due conversazioni con Aminatou Haidar
[…] «Dobbiamo esporci, dobbiamo farlo perché alla nostra lotta occorrono volti e nomi. Ora alcuni di noi sono conosciuti e possono rappresentare anche gli altri, gli anonimi, gli imprigionati e gli scomparsi. Chi è noto può prestare la voce a chi è costretto al silenzio o a parlare sommessamente. La notorietà comporta molti rischi ma forse un pericolo ancora più grande è riservato alla gran parte dei sahrawi senza nome colpiti quotidianamente. Non abbiamo altra scelta che combattere, non ci hanno lasciato altra strada. Molto probabilmente mi prenderanno di nuovo al ritorno, per zittirmi ancora, per punire me e impaurire l’intera comunità sahrawi attraverso la mia condanna. Io andrò avanti finché potrò. Alcune settimane fa hanno maltrattato mia figlia a scuola, è stato lo stesso maestro a picchiarla. Dice che l’ha sorpresa a disegnare la bandiera sahrawi sul banco di scuola. Lei ha solo dodici anni e questa non è l’unica umiliazione che ha dovuto subire. Il 17 giugno 2005, durante un sit-in in sostegno ai familiari dei prigionieri, sono stata arrestata e picchiata violentemente insieme a quanti volevano sottrarmi ai colpi. Il giorno dopo i miei due figli [l’altro ha 10 anni] avrebbero dovuto partecipare ad una festa per la fine dell’anno scolastico, si aspettavano una sorpresa o un regalo: hanno invece ricevuto la mia borsa sporca di sangue. Durante la mia prima prigionia2, iniziata quando avevo venti anni e durata tre anni e sei mesi, la mia famiglia ha pensato che fossi morta perché non ricevevano notizie. Per tutto quel periodo mi hanno bendato gli occhi».
[…] «Da maggio 2005 vi è una sollevazione generalizzata della comunità sahrawi costretta a vivere nell’angustia dell’amministrazione coloniale marocchina. Non vi è giorno senza manifestazioni collettive di protesta o azioni individuali di resistenza e insubordinazione. Abbiamo cominciato a protestare anche all’interno delle carceri perché queste sono diventate uno dei luoghi di vita e unità della popolazione sahrawi. Sappiamo che può capitarci la prigionia, che ognuno di noi dovrà vedersi un giorno ristretto in carcere e privato della residua libertà concessa a gocce. Organizziamo lunghi e rischiosi scioperi della fame. Siamo riusciti a restare senza cibo anche 51 giorni di seguito, a resistere per tanto tempo alla fame ma anche alle bugie fatte circolare contro di noi. Il ministro della giustizia marocchino ha dichiarato che il nostro digiuno era una semplice farsa e che in realtà ci nutrivamo regolarmente e che eravamo assistiti da medici scrupolosi. Ha tentato di isolarci sminuendo il valore della nostra battaglia ma si è contraddetto più volte e ormai non gode di credibilità. Nella lotta abbiamo registrato il sostegno di varie organizzazioni internazionali e della stessa associazione marocchina per la difesa dei diritti dell’uomo, nonostante fosse stata impedita qualsiasi visita in carcere per costatare le nostre condizioni di salute. Le posizioni di questa associazione sono state nobili e chiare: hanno contestato la versione menzognera del ministro e hanno rivelato la nostra determinazione nel continuare lo sciopero.
È stato importante scattare fotografie all’interno del carcere nero di El Aayún per sbugiardare le autorità marocchine e informare persone e comunità di altri paesi. Abbiamo preso l’abitudine di scattare fotografie, in segreto, durante le ore notturne e quando è possibile eludere la sorveglianza. È un impegno delicato ed efficace: comunichiamo con le parole e con le immagini dal cuore stesso delle prigioni e dei tribunali; non vi sono fotografi professionisti che lavorano con noi e abbiamo imparato da soli come fare. Ognuno agisce come può e con mezzi propri, ogni famiglia ormai ha un telefono cellulare o una macchina fotografica. Il Marocco vorrebbe imporre il nostro totale isolamento impedendo l’accesso alla stampa internazionale nelle città e nei villaggi sahrawi.
Se nessun giornalista o fotografo professionale può documentare quello che accade nel Sahara Occidentale tocca a noi dire cosa è l’occupazione. E lo facciamo direttamente nei luoghi della repressione, nelle caserme e nelle strade. A fotografare sono i militanti più impegnati ma anche chi non aveva mai usato un cellulare o posseduto una videocamera, i giovani e gli anziani, le donne. A volte fronteggiamo soldati e poliziotti che usano le videocamere per riconoscere i militanti e poi punirli, ma anche noi fotografiamo loro, le targhe delle loro auto senza contrassegni e le angherie che subiamo. Le autorità marocchine hanno dovuto sgomberare il carcere di El Aayún dopo che sono state rese pubbliche le fotografie dei detenuti ammassati l’uno sull’altro nei cameroni della prigione. Hanno cercato di avvalorare l’ipotesi che fossero dei falsi, hanno anche punito alcune persone ritenute responsabili degli scatti, ma ha vinto la forza di denuncia delle immagini. Una fotografia può rendere ridicole le truppe di occupazione, raccontare quanto sono puerili le loro informazioni studiate a tavolino. La fotografia è diventata parte della nostra lotta e la usiamo per avere rapporti con il mondo, conoscere noi stessi, favorire la memoria».
[…] «Come sapete, molte fotografie mostrano i corpi dei sahrawi feriti selvaggiamente. Si vedono uomini, giovani e non, con tumefazioni, arti fratturati, camicie e pantaloni insanguinati. I loro corpi sono parzialmente denudati per scoprire le parti colpite, ma anche moltissime donne sono fotografate con gli abiti sollevati. Potete immaginare cosa significhi per noi donne sahrawi mostrarci senza abiti, abbiamo dovuto superare la vergogna e le tradizioni familiari per denunciare le violenze nate dall’occupazione. Affrontiamo le offese con dignità e pazienza e questo è parte della nostra forza anche se i traumi non possono essere dimenticati. Quando qualcuno viene picchiato i familiari o gli amici, spesso anche prima che sia portato in ospedale o curato, provvedono a fotografare le sue ferite. Durante le manifestazioni in piazza c’è sempre una casa sahrawi pronta ad ospitarti, a permetterti di scattare una fotografia o a nasconderti se la polizia ti cerca. Fotogra-fiamo anche le abitazioni distrutte durante le perquisizioni o solo perché agenti della sicurezza si vendicano per le nostre proteste aggredendoci in casa. Ricordiamo e mostriamo come vengono trattate le nostre appartenenze, ciò che resta di una cucina devastata, dei vetri delle finestre spaccate, delle serrature divelte, delle sedie e dei letti sfasciati. Quello che fanno ai nostri corpi lo fanno ai nostri oggetti.
Ci sentiamo in pericolo, la nostra vita non ha valore per il Marocco. È una intera popolazione a vivere nell’incertezza e nella minaccia, ci vediamo negare il diritto ad una esistenza libera e dignitosa. La nostra lingua non è tollerata, le nostre idee e il nostro desiderio di libertà sono considerati un reato. Un passaporto ho potuto averlo dopo 16 anni di richieste grazie alla protesta di organizzazioni come Amnesty International, a quella di associazioni di giuristi democratici e di parlamentari di vari paesi. Il Marocco ha pensato che non poteva continuare a negarmi un documento di viaggio di fronte a tante pressioni internazionali, e quando mi è stato dedicato il «Premio Juan Maria Bandres» in Spagna, nel maggio scorso, ho potuto finalmente partire per l’Europa. Ci sarebbe bisogno della presenza continua nel Sahara Occidentale di osservatori internazionali, ma chiaramente l’immagine del Marocco ne uscirebbe malconcia. Quel paese non può permettersi visitatori scomodi e occhi critici. Tutto deve avvenire nell’ombra e nel silenzio.
Anche la nostra battaglia, dichiaratamente pacifica e di massa deve essere occultata o dipinta dalla monarchia di Mohammed VI, degno prosecutore della politica ferocemente coloniale di Hassan II, come violenta o addirittura terrorista. La nostra scelta pacifica è di principio: vogliamo che si effettui il referendum di autodeterminazione, firmato sia dal Marocco che dal Fronte Polisario, e che ad esprimersi siano direttamente i sahrawi. C’è il rischio concreto che i giovani scelgano di riprendere la guerra contro gli invasori, ma noi dobbiamo con ostinazione tenere aperto uno spiraglio diplomatico e di confronto.
In realtà l’Europa dovrebbe far sentire al Marocco la sua chiara aspirazione a voler difendere i principi del diritto internazionale e della giustizia vera. Noi difendiamo concretamente gli ideali in cui l’Occidente dice di credere, vorremmo che dalle parole scritte sulla carta o pronunciate con solennità si passasse alla loro applicazione. Chi ci ascolterà? Chi vorrà vedere come viviamo e come combattiamo? Viviamo sotto censura e senza diritti, ma riusciamo ad aggirare le maglie del controllo. Anche se le autorità marocchine bloccano i siti internet che si interessano della nostra causa, per impedirci di comunicare, riusciamo a trovare modi insoliti per superare la censura ed utilizzare ugualmente le tecnologie che ci permettono di inviare fotografie e documenti. Non si può zittire tutto un popolo o pensare che vi siano frontiere inviolabili. Conosciamo da poco la fotografia digitale e internet, non abbiamo risorse economiche e siamo controllati in ogni movimento, ma il bisogno di raccontare ci obbliga a trovare nuove soluzioni, ad essere veloci e imprevedibili. Continueremo a parlare, continueremo a mostrarci. A vedere e far vedere l’occupazione che ci ruba la vita».

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