martedì 17 novembre 2009



MOHAMMED.
La recente assoluzione dell'equipaggio della Cape Anumar ha stabilito che non può essere reato il salvataggio di vite umane quando si sta per mare. Ci sono altri 7 tunisini ancora nelle maglie della giustizia italiana per aver salvato 44 persone in mare. Il racconto che segue l'ho scritto pensando a uno di quei 7 tunisini, di cui avevo letto qualcosa sui giornali. Si chiama Mohammed.
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E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli déi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero... (Antigone, Sofocle).


E' l'imbrunire. Il cielo è limpido, ma il chiarore va cambiando di tono, e il rosso e il rosa, cominciano a prendere il posto dell'azzurro. E' in quel momento che arriva il mare. Si presenta, così, di petto, come a dire – eccomi, sono qua, non fare finta di niente - e Mohammed non fa finta di niente, mai. Non ci riesce. Lui va da sempre a spasso con il mare. Ha il petto ampio e forte di chi respira con il mare, con i suoi minerali. Sodio e cloro sono amici fraterni, a volte insidiosi. Cammina lentamente, ma eccitato. L'euforia dei suoi vent'anni e della notte che precede l'uscita in mare. Ha fatto un giro tra gli amici, ha intravisto Fatima, che è bella come deve essere bella una sposa per un ragazzo di vent'anni. Lo aspettano a casa presto, per cenare insieme e riposare un po' prima di andare. La vede sua madre, ha preparato la semola, stufato la carne e le verdure, fritto briq a non finire. Le mani invecchiate ma forti, che con la perizia della consuetudine, sgranano e smistano i chicchi; la posizione del corpo, sempre uguale, gambe piegate e divaricate, ad accogliere o espellere i doni di Dio. La vede sua madre, medico del corpo e dello spirito, somministra cibo a volontà, perché il corpo abbia forza con sé e rituali familiari, affinché lo spirito si consoli e non abbia paura. Sfugge un sorriso a Mohammed, dolce e sfrontato, mentre si appresta ad allungare il passo per arrivare a casa più in fretta. Ha già voglia del rito e di interpretare il ruolo che gli tocca. Non ha paura lui, né delle insidie del mare, né della fatica di lavorare. Ha braccia forti e gambe allenate. Conosce già il ritmo delle giornate che lo aspettano, la lontananza, la fatica, la discontinuità del sonno, e lo sguardo del padre, e dei grandi, quando il sacco è pieno di alghe e di poco altro. Ma Mohammed ha vent'anni e lo sguardo in avanti, i pensieri limpidi e tersi del cielo di Teboulda.
Kamel, Hamza, Abdel, Lassad e il comandante sono già lì, sul peschereccio, sul Morthada. Gli occhi dolenti, le sigarette accese, le borse con le provviste sistemate sotto coperta e i loro odori, che sfidano l'architettura del peschereccio e si accomodano a poppa. Non appena si parte, è l'odore della nafta, forte e penetrante, che scaccia gli altri. E' pungente, ma odora di consuetudine, come il rumore del motore che squarcia il silenzio di una notte stellata. Dopo poco Mohammed non lo sente più. Osserva suo padre e gli altri. Ripete gli stessi gesti ma sa che negli altri c'è il saper fare di anni: i passi certi, i movimenti esatti, lo sforzo dei muscoli allenati e precisi. Ci si muove per la prima salpa: parole urlate, gesti coordinati, i cavi che spingono i vanni e l'apertura delle reti. Si azionano i timoni e la calata è andata. A 60 metri di profondità, le reti hanno l'onere di raccogliere nutrimento e guadagno per chi abita per mare. Generazioni di famiglie di Teboulda vivono di quel fondo sabbioso di quel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa, e dei suoi regali, sempre più rari, sempre più scarni. Dopo la calata ci si riposa un po' sottocoperta. Mohhamed di sonno non ne ha, ma ha imparato come farselo venire, che dopo non se ne ha più il tempo.
Le voci degli altri annunciano che è tempo di raccolta. I cavi d'acciaio tirano le cime delle reti e poi si scorge il sacco. Mohammed si muove insieme al padre, che dall'altro lato, come lui, alza la rete per legarla ai ganci, fino a che l'arco alza il sacco e con un tonfo sordo, lo scarica sul ponte. Si lavora a mani nude, in ginocchio, a rimuovere le alghe, a separare il pesce buono, da quello che non vale niente. Le parole accompagnano la danza meticolosa delle mani. Del gambero rosso che non si trova più. Dei pochi merluzzi. Mohammed continua a lavorare, lo sguardo rivolto verso il pesce, e le alghe. E ascolta Kamel, che un tempo andava verso Lampedusa e tornava colmo di sgombri e di ricciole. Dice che è colpa dei cambiamenti del clima, che l'aumento della temperatura del mare ha fatto aumentare la mucillagine e che questa fa diminuire gli apporti nutrienti per le ricciole. Parla parole colte Kamel, quando parla di mare, dice che lui legge, che si informa. Mohammed pensa che non lo sa se è vero quello che dice Kamel, ma lo sta a sentire. Ha 50 anni, 5 figli, ed è il comandante. Gli altri parlano tra di loro, dell'aumento del gasolio, che oramai si porta via il 50% del ricavato di una uscita, fanno conti. Mandano giù Mohammed, a mangiare qualcosa e a dormire un po'. Si addormenta subito.
Lo sveglia il mare, e le parole concitate degli altri. Il mare è nervoso, forza 5 dicono. Incrocia lo sguardo del padre. Fuma in silenzio, posizione eretta, in faccia alle onde. Hanno avvistato un barcone, c'è un sacco di gente sopra. Gente dalla pelle scura, africani, ci sono donne, forse dei bambini. Le parole di suo padre hanno l'effetto di un' allerta sui sensi di Mohammed. Adesso li scorge distintamente, i volti sconvolti dal terrore, le gambe incerte, le braccia in alto ad invocare salvezza. E' un pugno nello stomaco, nervi tesi. L'occhio vigile sulle onde, sempre più grandi. Segue la preoccupazione nello sguardo del padre, Mohammed ha imparato a riconoscere in quello sguardo fermo ogni dettaglio. E gli occhi di suo padre gli dicono che quella gente non ce la farà. Rimane immobile Mohammed, il padre si allontana, per parlare con Kemal, lui rimane lì, di pietra. Le urla sempre più disperate, e quella barca, quel pezzo di legno fradicio che imbarca sempre più acqua, e che questione di secondi, si rovescerà e consegnerà alla violenza del mare il suo carico di umanità dolente. Mohammed sa, anche se non ascolta le parole degli altri uomini intorno a lui, che bisogna iniziare subito le operazioni di salvataggio, prima che sia troppo tardi. Sa delle difficoltà di avvicinamento. Sa che bisogna avvertire subito le autorità portuali. Sa che quei clandestini non li vuole mai nessuno. Sente le urla del capitano, ordina di predisporre tutte le misure per il salvataggio. Lo sente avvertire le autorità tunisine. Saranno loro, alle ore 15.00 di un mercoledì 8 agosto 2007, ad avvertire le autorità italiane del salvataggio in corso, e a specificare che i pescherecci sono in regola e i 7 marinai tutti iscritti da anni presso i registri competenti tunisini. Sono sempre più vicini, ci si scambia parole urlate tra il fragore del mare, sordo a ogni umana pietà. Mohammed sa che qualcuno dovrà scendere, e con forza di braccia riuscire ad agganciare le due imbarcazioni. Ho 20 anni pensa, e braccia forti. Si tuffa in acqua. Il corpo scende tra il silenzio degli uomini e il frastuono del mare. Quando risale, capisce che tutto va fatto in pochissimo tempo, che non resisterà a lungo. Affronta le onde con bracciate larghe e potenti. Schiaffeggia il mare per non abbandonarsi. Non capisce le parole che gli gridano, sa solo che c'è un ragazzo davanti a lui che ha capito ed è lui che deve guardare, seguire. Gli stessi 20 anni, cresciuti un po' più a sud. Mohammed afferra la cima, mentre un onda arriva e si prende la sua rivincita. Lo scaglia addosso al legno marcio della barca, una volta e poi ancora, e poi ancora. E ad ogni volta Mohammed sa, di dovercela fare. Non sente il dolore dell'urto. Sa che è la sua faccia quella che si scontra con il legno della barca, e che la sua forza potrebbe non bastare.


Sostieni il mio corpo, bahr, e dagli forza. Da te vengo, dall'acqua nasco. Ho nuotato per mille acque prima ancora di venire al mondo. Nell'acqua mi sono generato, e in essa sono cresciuto milioni di volte. Dall'acqua ho tratto nutrimento e con lei ho imparato i suoni materni, le carezze dell'amore. Adesso ho bisogno di te. Che mi insegni di nuovo a stare dentro di te. Senza che la bocca e i polmoni si riempiano delle tue bolle di bambino. Ce la possiamo fare solo insieme, bahr, mi ascolti? Ci tengo a vivere si, ma più di ogni altra cosa, ci tengo che tu torni ad essere vita. C'è già la terra per accogliere i morti, non abbiamo bisogno di altre bare. Quanti corpi di uomini, donne, bambini, riposano in te, in questi tempi feroci di barbarie. Quante lingue, colori, occhi, speranze e cuori hanno lasciato il respiro e sono diventati carne, ossa e paesaggio tuo. Non te li prendere questi, bahr, mare mio, restituiscili alla terra di cui sono fatti. E accompagnaci in pace...


Grida Mohammed, per darsi forza. Un grido di caverne, di uomini che abitavano la terra milioni di anni fa, un grido soffiato fuori con rabbia e disperazione. Perché manca poco e lo sa. A pochi metri tira la cima, ed è fatta. Gli altri pronti, scambiano le proprie fatiche con quelle consumate di Mohammed. Abdel è pronto ad avvolgerlo con una coperta calda e a curargli le ferite al volto. Il sangue scivola via insieme all'acqua e si porta via anche l'ansia. Ha tempo di guardare quelle persone di cui non sa niente. Sente quello che dice Kemal, ma non capisce subito che sta dicendo che gli italiani vogliono che con un mare così se ne tornino in Tunisia, a 130 miglia di distanza. Che se ne tornino indietro, quando sono a poche miglia da Lampedusa. Si concentra sulle parole che arrivano via radio, sugli sguardi dei suoi compagni di lavoro, sui volti ancora sconvolti delle persone che hanno raccolto a bordo. -Vogliono informazioni precise sulla gente che abbiamo salvato – gli dice il padre, e allora Mohammed si alza e si avvicina. Li conta, li guarda, alcuni lo ringraziano con parole, gesti, sguardi. Altri rimangono sdraiati, stremati, tra loro ci sono 2 donne incinte e anche due bambini. 44 persone, non alghe, non pesci. Mohammed si siede, beve un thé dolce e caldo, mentre il peschereccio riprende la rotta verso Lampedusa. Sembra che gli italiani abbiano acconsentito all'attracco.
Finalmente sorride Mohammed, si lascia andare all'euforia e all'orgoglio, ha salvato un sacco di gente, e già li vede i suoi amici intorno a lui, a farsi raccontare del coraggio e della forza che ci è voluta.
Arrivano a Lampedusa scortati dalle motovedette della capitaneria. La polizia italiana sale sul peschereccio. Gli immigrati vengono portati via. Mohammed li guarda, vorrebbe chiedere dove andranno, cosa faranno, ma non sa a chi chiederlo. Una faccia scura, nera, rimane voltata, fissa il volto di Mohammed insistentemente fino a che lui la scorge. Mohammed lo riconosce, è il ragazzo che sulla barca lo ha aiutato a prendere la cima e ad affrontare il mare. Lo trascinano via, ma lui continua a guardarlo e a sorridere. Mohammed ricambia il sorriso, e dentro di sé lo saluta – che Allah ti protegga -, senza accorgersi che qualcuno dietro di lui sta per mettergli le manette ai polsi.




Mohammed Lamine Bayyoudh, Hamza Braham, Abdel Wahif Ghafouri, Lassad Gharrad, Abdel Basset Jenzari. Hanno scontato 33 giorni di carcere con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, i comandanti Abdel Krim Bayyoudh e Kamel Ben Khalifa sono tutt'ora agli arresti domiciliari a Teboulda. I loro pescherecci rimangono sequestrati.



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