martedì 20 ottobre 2009

Meglio nascere impala

Faccio la turista in Sudafrica. Osservo, in silenzio. Riacquisto i sensi.
Da brava turista bianca me ne vado per due giorni a visitare il Kruger National Park, parte del Great Limpopo Transfrontier Park, 35.000 km quadrati di riserva che il Sudafrica condivide con il Mozambico e lo Zimbawe. Il parco più famoso del continente africano.
Fu la popolazione san per prima, come dimostrano le iscrizioni rupestri, ad abitare insieme agli animali questo territorio, circa 30.000 anni fa. Convivevano. Uomini ed animali. Uccisi gli uni e gli altri, gli uni per mano degli altri. E così fu per generazioni e generazioni.

Fu l'arrivo dei colonizzatori bianchi nel paese a provocare un drastico shock. I portoghesi per primi, e poi una umanità varia di commercianti inglesi, olandesi della Chiesa riformata, tedeschi calvinisti, ugonotti francesi, tutti fuggiti dalle persecuzioni religiose dell'Europa della Controriforma. Colonizzarono il paese, partendo dalla punta meridionale del continente africano, dal Capo di Buona Speranza, spingendosi sempre più verso l'interno. Le aree dell'interno divennero luoghi di battute di caccia avventurose, palcoscenico pubblico della supremazia bianca. Esibizione di potenza di fronte ai nativi fatti ben presto schiavi, e insieme messaggio simbolico da rispedire alle amate/odiate madrepatrie. Corna di animali, zanne d'elefante e mani di scimmie rappresentarono per generazioni i trofei che consegnarono all'uomo bianco un predominio feroce su quella parte di mondo, fossero piante, animali, risorse, uomini o donne. E così nel tempo, elefanti e leoni, leopardi e ghepardi, come tantissime altre specie animali, divennero sempre più rari, o perché spinti verso altri territori o perché fisicamente decimati dalla furia dell'uomo bianco. Un equilibrio rotto per sempre. Tra razza umana e animale. E tra gli umani, divisi per razze.
Quello strano insieme di generazioni bianche diede vita a un popolo nuovo: contadini e allevatori, fieri e chiusi, protestanti e predestinati dal loro Dio ad essere gli unici e i soli a cui potessero appartenere quegli immensi territori considerati selvaggi. Dal mescolarsi tra europei nacquero i boeri e dalle loro lingue nacque un'altra lingua, l'afrikaans. Talmente certi e orgogliosi di essere gli unici predestinati dal loro dio, che non accettarono neanche la corona inglese, e diedero vita a ben tre guerre anglo-boere.
Nel frattempo, nell'area occupata attualmente dal Kruger National Park, gli elefanti quasi scomparvero a causa del commercio dell'avorio, e il resto degli animali, quando non furono materialmente uccisi, vennero decimati perché cacciati dai loro territori e quindi impossibilitati a procurarsi da vivere. Recinzioni di terre, sfruttamento intensivo dei territori per l'agricoltura e per il legname, trasformarono un'area ricchissima in quanto a biodiversità in un territorio straordinariamente povero.
Fu Paul Kruger, presidente boero dal 1833 della ZAR (Zuid Afrikaansche Republiek) in guerra con la corona inglese, a istituire la prima riserva naturale nell'area, nel 1898. Per proteggere gli animali, cacciarono ed espropriarono violentemente delle loro terre ancestrali le popolazioni che da sempre abitavano quei territori, perpretando e acuendo la frattura che per primi avevano creato tra mondo animale e mondo umano. Le popolazioni cacciate pagarono un prezzo altissimo in termini di terre, risorse e opportunità di sviluppo. Nell'arco del '900 la prima riserva si estese fino a diventare già negli anni '40 la principale meta turistica dei viaggiatori bianchi. Gli animali tornarono a casa, le savane si ripopolarono di leoni, elefanti, rinoceronti e di tutti i più importanti abitanti dei paesaggi africani.
Fu solo a partire dal 1994, con le prime elezioni libere e democratiche del Sudafrica e l'abolizione del regime dell'apartheid, che anche lo spirito con cui questa immensa risorsa del paese veniva gestita, si andò trasformando a favore di una maggiore considerazione delle popolazioni cacciate da quei territori. Si andò diffondendo un nuovo pensiero, legato all'ecologia sociale, che provava a sanare quella frattura originaria attraverso una gestione che tenesse insieme la sacrosanta protezione del mondo animale e vegetale, con la possibilità che fossero le popolazioni, che da sempre hanno abitato quei territori, a beneficiare delle risorse e delle possibilità di sviluppo che un parco come il Kruger produce.

Il Kruger National Park
Nel Kruger Park abitano oggi 336 specie di piante, 500 specie di uccelli, 145 di mammiferi, 34 di anfibi, 114 di rettili,49 di pesci e 380 specie native di alberi, tra cui l'imponente baobab e il mopane, le cui foglie sfamano i pachidermi africani. E' gestito, come tutti i parchi e le riserve sudafricane, da un unico ente pubblico: il Sanparks, che si occupa delle visite, degli alloggi, dei programmi di ricerca e protezione.
In tutte le reception, uffici, punti informativi e di accoglienza dei parchi sudafricani, trovo sorprendentemente, personale di pelle nera. Non un bianco. In tutto il Sudafrica, al di fuori dei parchi, nelle reception, punti informativi e di accoglienza trovo solo personale bianco. Non un nero. Li trovi in basso. A pulire le stanze, nelle cucine, al freddo e al gelo delle notti sudafricane ad aprire e chiudere un cancello.
Attraversare il Kruger è un'esperienza indimenticabile, che ti costringe a fare i conti con la potenza del mondo animale e a ridimensionare il tuo ego, a relativizzare il tuo posto nel mondo, a guardare ai tuoi limiti, a quanto siamo piccoli e nulli in confronto a una qualsiasi delle creature del bushveld africano. E' un parco famoso perché ospita tutti i Big Five (leone, leopardo, bufalo, rinoceronte e ippopotamo), i più grandi abitanti di queste terre.
I grandi felini se ne stanno paciosi tra l'erba, o sdraiati sui grandi alberi, al riparo dai nostri occhi indiscreti. Quando ti capita di incontrarli di solito ti fissano attenti per qualche secondo, per poi tornare a sdraiarsi o ad oziare, incuranti della tua presenza, altezzosi e indifferenti. Sembrano quasi volerti dire che non gli dai neanche fastidio, perché se solo volessero, basterebbe un niente e te ne correresti a gambe levate da dove sei venuto.

Accosto la macchina al ciglio della strada, mi dicono ci sia una leonessa, proprio davanti a me, nascosta tra l'erba. Guardo, scruto con il mio binocolo, ma non la vedo. “E' a un metro da te” mi dicono e io continuo a non vederla. Improvvisamente ruggisce.
Il ruggito di una leonessa è un'esperienza sonora di tale potenza che è impossibile darne conto a parole. E' un suono che viene dal centro della terra, dal suo nucleo più profondo. E' insieme caverna, temporale, terremoto, frana. E' solo un ruggito e pure ti sembra sia il suono del mondo tutto insieme.
Ma simbolo di questo parco è un'altra creatura, un'antilope unica, senza parenti prossimi: l'impala. E' un'antilope di straordinaria bellezza ed eleganza, il corpo snello e veloce ricoperto da un manto lucido, del colore della savana, il muso affilato e due grandi occhi neri, espressivi e attenti, abituati a guardarsi costantemente intorno per potersi difendere dai tanti cacciatori di cui è preda. Di impala ne vedo a centinaia. Solo nel Kruger abitano circa 150.000 esemplari. Ma ce n'è uno che, fissandomi diffidente tra gli alberi, mi ha emozionato fino alla commozione. Se ne sta lì fermo, seminascosto, serio. Incrocia il mio sguardo e non lo lascia più. Poso il binocolo, che non serve con lui, allontana invece di avvicinare. E me ne rimango lì, anch'io ferma, attenta e seria. A scrutare nei suoi grandi occhi neri. Sospesa tra lo spazio e il tempo. Tra razza animale e umana.

Città del Capo
Narra la leggenda che ci fu un tempo in cui gli dei e i giganti erano in guerra tra loro per imporre le proprie leggi sul mondo umano. Su tutti si impose Adamastor, il gigante dei venti, che abitava le zone costiere rocciose e impervie del Capo di Buona Speranza. Quando le prime navi portoghesi tentarono di doppiare il Capo, in rotta verso le ricchezze dell'oriente, Adamstor ingaggiò una lotta furiosa contro di loro. E così per anni e anni, le navi furono cacciate e affondate dagli impetuosi venti del gigante padrone. Ma anche Adamastor, seppur gigante, dovette rassegnarsi alla presenza dell'intruso bianco, non senza condannare però un vascello e i suoi uomini, all'eterna lotta con il mare e i venti impetuosi. E' ancora lì, il vascello fantasma, e nelle notti di luna piena si dice si sentano le voci degli uomini a bordo, mentre tentano di vincere sulle forze di Adamastor e di attraccare al Capo.
Narra la storia che il primo europeo a doppiare il Capo di Buona Speranza fu il portoghese Bartolomeo Dias nel 1487, e che subito dopo, nel 1498, un altro portoghese, Vasco da Gama, aprì la rotta marittima verso l'India e l'Oriente. I portoghesi, e gli olandesi arrivati nel secolo successivo, dimostrarono scarso interesse per l'Africa meridionale.
Nel 1650 la Compagnia Olandese delle Indie Orientali decise di stabilire in quella zona un presidio permanente, non già con l'intento di colonizzare il paese, ma come punto di sosta e di approvvigionamento per le navi in transito da e per l'Oriente.
I rapporti tra olandesi e i locali khoisan furono non proprio cordiali. Tanto che la prima colonia bianca dell'attuale Sudafrica fu costretta, per mancanza di manodopera, a far arrivare schiavi prevalentemente da Indonesia e Madagascar. Quando scoprirono di quante risorse era ricco il paese, lo scarso interesse si tramutò in rapina rapace, e anche i fieri khoisan furono fatti schiavi, andandosi a mischiare con altri schiavi. Le generazioni successive, frutto di tali meticciati, furono classificate dalla metodologia razzista dei governi dell'apartheid, coloured, per distinguerli dai black, i neri. Insomma feccia, ma feccia di serie A, mentre i black erano, naturalmente, feccia di serie B.
Città del Capo è oggi descritta nelle guide del paese come una città allegra, cosmopolita e multietnica, vivace culturalmente e meno soggetta di altre grandi città a fenomeni di violenza e criminalità. Lo è effettivamente una città vivace, bella e interessante da visitare, ricca di stimolanti attrazioni culturali, piena di locali dove si fa musica, arte, cinema. Una città piacevole.
Questo è il nuovo Sudafrica, pensi. Con piacere.
Poi mi capita di sedermi a riposare un po' all'ingresso del grande acquario, vicino al porto.
Arriva una scolaresca, accompagnata da 3 maestre bionde. I bambini e le bambine di 4 o 5 anni sono tutti biondi, occhi azzurri, pelle chiarissima, divise belle stirate, blu e bianche. Vivaci e urlanti come tutti i bambini del mondo.
Dopo poco arriva un'altra scolaresca, accompagnata da 3 maestre nere. I bambini e le bambine di 4 o 5 anni sono tutti neri, divise grigie, rattoppate, scarpe coperte di fango. Vivaci e urlanti, come tutti i bambini del mondo.
Questo è ancora il nuovo Sudafrica, pensi. Con dolore.
E allora forse non mi bastano gli impala e le leonesse, la musica che esce da ogni dove, e l'imperativo che mi ero fissata di fare solo la turista, perché in 2 settimane solo quello si può fare, basta farlo con dignità.
Mi propongono un pomeriggio “nell'altra” Città del Capo. Tentenno. Non voglio fare parte della giostra dei tour del dolore, di queste gite miserevoli nelle township, dove caritatevoli turisti bianchi, fotografano i ragazzini sporchi per la strada. Alla fine mi convincono.
Mi viene a prendere Dganga. Un ragazzo di 37 anni, alto e dinoccolato, nero naturalmente, loquace e allegro. Professionalmente ineccepibile.
Dganga è uno xhosa, appartiene cioè a uno dei principali gruppi etnico-linguistici che formano il caleidoscopio sudafricano. Anche Nelson Mandela è xhosa. Chi legge xhosa per la prima volta si chiede come si pronuncia tale parola, e anche se la si sente pronunciare da loro, non si è assolutamente in grado di ripeterla. La lingua xhosa è fatta di suoni per noi inconcepibili e irripetibili, è una lingua che fa click, che dice le parole scocchiandole, come un registratore un po' antico, a cui improvvisamente dai lo stop.
Accantono la mia diffidenza e comincio a lasciarmi andare al click della voce di Dganga. E alle sue grandi mani che accompagnano le parole, mentre mi racconta che la prima tappa del tour è la visita al museo del District Six.

The spirit of District Six.
L'area di Cape Town, conosciuta con il nome di Distretto 6 dopo la ripartizione in aree del consiglio cittadino nel 1867, nacque come sobborgo dell'azienda boera di Sir Claas Hendrik Dieperman nel 1701. A metà del 19° secolo la proprietà passò a William Hurter, mercante di vini. Alla fine dell'800 e per tutta la prima metà del 20° secolo, il distretto 6 divenne il quartiere degli abitanti poveri di Città del Capo, fossero essi europei, africani, musulmani, ebrei, malgasci o indonesiani. Operai, braccianti,schiavi liberati, lavoratori del porto o delle tante attività commerciali della ricca Città del Capo. Tutti vivevano al 6. In case piccole, accatastate una sull'altra, affacciate su vicoli stretti e sporchi, brulicanti di lingue, suoni, preghiere, costumi, spezie e negozi diversi.
Nel 1950, a soli due anni dall'istituzione formale del regime dell'apartheid, il governo promulgò il Group Areas Act, muro legislativo portante dell'architettura dell'apartheid. La legge prevedeva una ripartizione del paese per aree e che a ciascuna di esse fosse assegnato un distinto gruppo etnico. Attraverso il Group Areas Act il regime dei bianchi diede forma e concretezza alla logica folle della separazione. L'intera popolazione del Sudafrica fu catalogata etnicamente, secondo principi non certo antropologici, e destinata ad aree ben precise, che per i neri assunsero il nome di bantustan o homeland. L'applicazione della legislazione per aree comportò deportazioni di massa, sradicamento delle popolazioni, separazione di famiglie e comunità, sovraffollamento dei sobborghi, miseria e mancanza di servizi, scontri etnici. Si calcola che in base al Group Areas Act circa 4 milioni di persone subirono deportazioni in tutto il paese.
In base a questa legge, l'11 Febbraio del 1966 il governo dichiarò District Six una “whites only area”, zona destinata ai soli bianchi e il conseguente allontanamento di tutta la popolazione non bianca. L'intero processo di attuazione del progetto durò 15 anni e portò alla deportazione di circa 55.000 persone nelle aree denominate Cape Flats e alla distruzione totale di tutti gli edifici, tranne chiese e istituti religiosi. District Six fu rasa al suolo. Al suo posto nacque il quartiere bianco “Zonnenbloem” che in afrikaans significa fiore selvaggio. Il quartiere per bianchi in realtà, non si sviluppò mai e l'area rimase desolata e abbandonata. Quel territorio conservò l'anima e lo spirito dei suoi abitanti e rifiutò i nuovi, e la sua desolazione rimase a monito e memoria della ferita aperta nel cuore della città. I quartieri hanno un'anima, si sente dire spesso, e a volte è frase vuota e retorica. Ma a District Six la retorica cede il passo alla storia, e le strade vuote e abbandonate si popolano di invisibilità carnali, di odori intensi, di voci e suoni. Di quell'umanità cosmopolita che abitava il quartiere, fiera solamente di essere sé stessa, della sua coesione e della sua vivacità, dei suoi bambini figli di tutti, della povertà condivisa, delle invocazioni ai propri dei, fossero esse recitate in ebraico, arabo, hindù, latino o xhosa. Lo spirito di District Six vaga ancora per quelle strade, moderna e dolorosa rievocazione della condanna del gigante Adamastor.
Oggi una vecchia chiesa ospita il District Six Museum. Dganga, la nostra guida ci fa entrare, e poi si mette in disparte, lasciandoci soli, in questo luogo in cui nonostante le tante persone, regna un silenzio commosso. E' un luogo che ha fatto del recupero della memoria di District Six un imperativo morale, e faro guida nella battaglia alle ingiustizie del post-apartheid. Sotto i miei piedi il pavimento è una gigantesca mappa disegnata a mano del quartiere, in cui gli antichi abitanti o i loro eredi, hanno scritto di proprio pugno dove erano le loro case, quali famiglie abitavano in quali vie. Tracce grafiche vive, scritte tremolanti, calligrafie diverse, che raccontano più di tante iscrizioni museali. Al centro della stanza una grande piramide è formata dalle insegne delle vie del quartiere, e dal ballatoio penzolano enormi lenzuoli bianchi, dove chi è tornato ha raccontato chi era, dove abitava, ha scritto messaggi, pensieri e parole. Una memoria viva, ricostruita dagli stessi vecchi abitanti, non cristallizzata nelle parole vuote di tanti nostri musei. Il museo di District Six è un luogo di una bellezza dolorosa, di una struggente straordinarietà, un luogo in grado di trasmettere emozioni fortissime a chiunque entri, lo noto mentre osservo gli altri visitatori, con le lacrime agli occhi, mentre attenti scrutano le vecchie fotografie che ridanno volto, anima e vita a questa vecchia storia. Immagini bellissime: vita, volti, feste, negozi, carnevali, stanze da letto, cucine, giochi di bambini, locali fumosi, risate, preghiere, spezie, scritte sui muri. Un mondo intero, chiuso in un quartiere, cancellato per sempre, a cui nessun indennizzo previsto dai nuovi governi, renderà giustizia.
Il ruggito di una leonessa mi ha raccontato della terra e del mondo animale.
District Six mi ha raccontato del mondo umano.

Se questo è un sole
Dganga mi viene a chiamare, sei l'ultima, mi dice. Esco dal museo, mentre ho in testa le immagini vive di un luogo simbolo dell'apartheid. Ci dirigiamo verso Langa, una delle tante township che circondano i quartieri del centro di Città del Capo. Langa in lingua xhosa significa sole, e Dganga la nostra guida, vive lì. E' una delle più antiche township di tutto il Sudafrica, istituita nel 1901, per confinare i neri durante un'epidemia di peste bubbonica, e che ci fa capire meglio come l'apartheid nel 1948 istituzionalizzò banalmente ciò che avveniva di fatto da generazioni.
Il paesaggio è, oserei dire, consueto, per come siamo abituati a vedere queste aree in ogni parte del mondo. E tutte si somigliano, cambiano i volti, le lingue o gli abiti, identiche sono la miseria, il fango, le lamiere delle baracche, i piedi scalzi dei tanti bambini per la strada. A Langa convivono le case in muratura di una sola stanza frutto dell'edilizia popolare, con le baracche fatte di lamiera e materiali tra più vari, dette hokkie, cresciute “abusivamente”. Le une vicine alle altre. Gli edifici come le scuole, i presidi sanitari, le are giochi, tentativi impropri di regolare ciò che regolabile non è per sua natura, sorgono accanto a dimore nata dal nulla, rifugi di chi non ha altro se non le proprie braccia. Ogni anno da tutto il Sudafrica e da altri paesi come lo Zimbawe e il Mozambico, a migliaia arrivano nelle grandi città per cercare lavoro, in fuga da campagne deserte, dove le grandi aziende in mano alle stesse grandi famiglie di sempre, continuano a sottrarre sviluppo e opportunità alla popolazione nera. La parte abusiva viene ogni tanto sgomberata dalle autorità municipali, per risorgere il giorno dopo, qualche metro più in là, o anche nello stesso luogo e riutilizzando i materiali rimasti a ricordo dello sgombero. Spazio vitale non ce n'è. Si sta tutti insieme. I regolari e gli abusivi. Bagni non ci sono nelle baracche, come non ci sono nelle casette dei regolari. Acqua corrente nemmeno. Le mancanze li accomunano, non i servizi. Qualche bagno e doccia pubblica è stata costruita, mentre l'acqua si continua ad andare a prendere alle fontane pubbliche, lavoro svolto dalle bambine, in città come in campagna. Parrucchieri di ogni genere, improvvisate macellerie che espongono decine e decine di teste di pecore e rendono l'aria nauseabonda, taverne (shebben) dove si vende la birra fatta in casa, e poi spacci e negozietti che vendono oggetti di ogni tipo e foggia, guaritori tradizionali, un brulicare incessante di gambe, oggetti, voci, risate, musica e urla di ogni genere.
Dganga mi dice che c'è coesione, che la gente si aiuta, che non ci sono conflitti tra le persone a Langa, la township degli xhosa. Dall'altra parte della strada, dove la township è abitata dai coloured, ci sono tanti problemi, a suo dire, droga, alcool, scontri. Rimango spiazzata dalla constatazione che le township continuano a rispettare la rigida separazione etnica voluta dall'apartheid, e di quanto odio sia stato sedimentato tra le stesse vittime, se Dganga che è uno xhosa, parla con tale disprezzo dei suoi vicini. Penso ai sentieri sotterranei che per generazioni le politiche segregazioniste hanno scavato negli inconsci e nei cuori delle persone, creando una rete di gallerie di diffidenze non comunicanti. Ancora oggi. Penso alle violenze, le torture e i raid scoppiati lo scorso anno contro gli stranieri. Neri ammazzati, addirittura bruciati vivi da altri neri. Anche questo è il nuovo Sudafrica. E puzza di vecchio.

Il nostro orgoglio
Quando, intorno agli anni '50, Langa non ce la fece più a contenere la popolazione nera, sorse Guguletu, la seconda township, che insieme alla prima, rappresentarono per tutti gli anni '60 e '70 le uniche aree destinate ai neri secondo il Group Areas Act. Le deportazioni da tutto il paese verso queste aree modificarono e non poco, anche gli stili di vita. Il trauma delle deportazioni, lo sradicamento dai propri territori, la separazione delle famiglie, la distruzione dei legami comunitari, portarono a uno chock collettivo di proporzioni insanabili. E così Guguletu, che significa il nostro orgoglio, crebbe a dismisura, sulle ceneri delle vite delle persone. Crebbe tanto che dopo ne nacquero altre, Nyanga e Khayelitsha, che da sola ospita 1 milione di persone.
Attraverso Guguletu lungo la NY1, l'arteria principale che taglia in due la township, per poi perdersi in una miriade di stradine e sentieri. Al alto della strada, prima di arrivare al ponte che porta a Nyanga, noto una piccola croce spoglia. Dganga mi racconta che in quel punto lì è stata uccisa Amy Biehl. E mi riporta alla mente un libro letto anni addietro “Da madre a madre” della scrittrice sudafricana Sindiwe Magona.
Amy Biehl era una ragazza americana, che arrivò a Città del Capo nel 1992, con una borsa di studio Fullbright Fellowship, per uno studio sulle prime elezioni democratiche e la partecipazione delle donne nella vita politica.
Nell'agosto del 1993 era in pieno svolgimento “l'operazione Barcellona”, campagna del Congresso Studentesco Sudafricano in appoggio agli insegnanti in sciopero. Nei primi anni '70 Guguletu fu insieme a Soweto, teatro delle rivolte studentesche contro l'uso della lingua afrikaans a scuola.
Il 25 Agosto del 1993, lungo la NY1 un gigantesco mille piedi al ritmo della toyi-toyi, la danza marcia degli studenti, percorse Guguletu. La danza cedette il posto alla marcia, e una rabbia antica, profonda ruppe gli argini, attraversando la township al grido di One settler, one buttler, un colonizzatore, una pallottola.
Amy Biehl era in macchina con 3 studenti neri, suoi compagni di studi. Li riportava a casa, a Guguletu, per dirsi addio, l'indomani sarebbe tornata a casa, negli Stati Uniti. La sua macchina fu circondata dal millepiedi, lei trascinata fuori, e nonostante le urla in sua difesa dei suoi amici, fu massacrata con pietre, coltelli, calci e pugni. Il suo corpo, reo di essere bianco, devastato da una miriadi di colpi, provenienti da ragazzini, rei di essere cresciuti neri.
Sindiwe Magona, nel suo libro “Da madre a madre”, scrive un lunghissima lettera da parte della madre di uno degli assassini alla madre di Amy. Nelle parole di una madre all'altra c'è il suo racconto di vita, dall'infanzia nella miseria, all'esodo forzato, alla mancanza di tutto, ai figli cresciuti a pane e odio. Un racconto doloroso e necessario, apprezzato anche dalla famiglia di Amy.
Il clamore e lo sdegno per il brutale omicidio di Amy portarono all'arresto e alla condanna a 18 anni di carcere di 4 ragazzi giovanissimi, tutti di Guguletu. In realtà fu una folla intera che la uccise.
Per volere dei genitori di Amy nel 1997 nacque la Amy Biehl Foundation, un'associazione che opera ancora in tutte le township di Città del Capo, su programmi educativi rivolti ai bambini e agli adolescenti.
Nel 1998 i 4 ragazzi accusati dell'omicidio si presentarono di fronte alla Commissione per la Verità e Riconciliazione, creata nel paese per sanare, attraverso la ricerca della verità, le ferite dell'apartheid. Il padre di Amy Biehl fu ascoltato in commissione. Quest'uomo straordinariamente coraggioso, riconobbe l'autorità morale e etica della Commissione, e di fronte alle parole di ammissione di colpa dei 4 ragazzi, concesse loro il suo perdono, e acconsentì alla loro scarcerazione.
Amy Biehl fu ricordata lungo la NY1 in una commossa cerimonia pubblica a cui partecipò tutta Guguletu. Con orgoglio.
Oggi 2 di quei ragazzi lavorano per la Amy Biehl Foundation. Insegnano e imparano.
E' anche questo il nuovo Sudafrica, e mischia dolore a speranza.

L'ultima sera a Città del Capo, prima del volo di rientro per l'Italia, mi portano a cena sulla Main Street, da Mario's, inequivocabilmente ristorante italiano. Sono solita non frequentare ristoranti italiani quando viaggio, ma tutti ne parlano come un ristorante storico della città, aperto da una coppia di italiani nel 1968 e che ha saputo mantenere buoni standard di qualità, uniti a una buona contaminazione con la cucina sudafricana.
La signora che lo gestisce, moglie del Mario passato a miglior vita, sembra una donna simpatica. Aperta, gioiosa, forte, felice di parlare con dei compaesani. Quando gli chiedono se tornerebbe in Italia, lei ci risponde che quello ormai è il suo paese, anche se non lo capisce più il suo paese. Adesso sono io che non capisco. E si lascia andare a una lunga invettiva contro questi neri, che -pensate, vogliono il 10% di aumento di salari- riferendosi agli scioperi dei dipendenti pubblici che hanno bloccato il paese tra luglio e agosto. E mentre calcolo che il 10% di aumento di salario mensile è più o meno quanto lei guadagna in una sola sera al suo ristorante, visto quanto ci fa pagare la cena, ci regala una perla di saggezza italica, invitando questi neri a tornarsene dietro i cespugli.
Esco dal locale muta, in preda a una collera cieca, e mentre mi fumo una lunga sigaretta, mi si affollano i pensieri in testa.
Il ruggito della leonessa, le parole di Dganga che fanno click, Amy e le parole di suo padre, l'anima del District Six, la voce della cantante nera che intona una struggente canzone per il suo Sudafrica, Miriam Makeba la regina, che se ne è venuta a morire a Castel Volturno, la faccia di Mandiba Mandela, i suoi occhi profondi, che mi ricordano quelli di quell'impala che mi ha osservato a lungo, intimorito e curioso. Dietro i cespugli.




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